domenica 20 dicembre 2009

"Bianca neve" ovvero "I due nomi della neve"

la neve è un evento straordinario, e l'ho scoperto passeggiando nel parco di notte illuminato dal bianco manto. non ero sola, per fortuna, altrimenti avrei esitato fino a decidere di non andarci–nonostante l'entusiasmo di fronte alla macchina coperta da tre mani di neve.
pensavo che  la neve non permetterà mai a questa macchina di schiodarsi da lì, ed è già buona che con uno spazzolone gliene ho spolverata via parecchia dal tettuccio e dal resto. era irriconoscibile! quando sono uscita questo pomeriggio sono scoppiata a ridere:sembrava dover scomparire del tutto affondata e infossata in su e ingiù nella neve; sopra, la neve ne ricopriva ogni attributo (targa, linea del cofano, del portabagli, degli specchietti, sporco, forma dei vetri) e non si riconosceva più; sotto, la neve aveva combinato come degli argini addossati alle ruote, alle porte, alla marmitta. soltanto i due tergicristalli, quello davanti e quello dietro, sporgevano fuori come zampilli congelati, neri. l'antenna era infatti tutta coperta e me n'ero dimenticata mentre solcavo la coltre sopra la cappotta con andirivieni di spazzolone da tre euro del leclerc, che bisognava stare attente a non raschiare sulla vernice, già di per sé disprezzata dai parcheggiatori bolognesi.
ma invece oggi no, oggi era così candida, illibata, tenera, abbracciata da un grumone di fiocchi.
sembrava così innocente di fronte all'ambiente, non sembrava potesse essere un oggetto inquinante. sembrava non avere a che fare nulla col nero.
allo stesso modo abbiamo cercato nel parco un posto illibato, per camminare. ad un certo punto era come stare nel deserto, benché il mare di bianco fosse già stato in diversi punti affranto da piedi umani.
e il motivo per cui sembrava il deserto era perché non c'erano strade. solo alcune, accennate. è più difficile mantenere la rotta se non ci sono piste. bisogna scegliere ad ogni passo.
il silenzio e l'eco di una risata lontana che sembra un segnale tribale. e una sirena. il parco si sperde nella periferia che sconfina nel chissaddove.
una bottiglia di vino per scaldarci.

domenica 15 novembre 2009

Corpi estranei

Due ragazze, Cinzia e Rossana. Cinzia studia ingegneria ed ha un fisico mozzafiato. Infatti arrotonda la borsa di studio facendo foto per pubblicità di abbigliamento intimo. Rossana studia legge, e le sue fattezze fisiche non sono qui rilevanti.
Rossana dà un esame che le era costato due mesi di lavoro intensissimo, in cui aveva rinunciato ad ogni svago. Dopo un brillante risultato si era concessa una serata molto stravagante, si era divertita da matti ma si era buscata un raffreddore. Cinzia in una pausa dalle lezioni entra ed esce dai negozi distrattamente, spiando negli specchi la propria eleganza, il suo corpicino affusolato. Gli uomini la guardano, con una punta di sofferenza, e lei sa che è un complimento. Si immagina che essi penseranno alle sue forme, alle sue linee almeno fino a che qualcos'altro non li distrarrà di nuovo. Le sue forme e le sue linee sono nella loro mente. Ma d'altronde devono averle già viste da qualche parte, in un cartellone, in una pagina di rivista sfogliata in attesa dal dentista, sul catalogo di intimo consultato dalla moglie.
Rossana ha sensazioni strane, è davvero malridotta dal raffreddore, da due giorni, ormai. E quando sta per riprendersi, le vengono le mestruazioni. Non che fossero inaspettate, ma i sintomi del raffreddore creavano una specie di brusio che non le lasciava ascoltare i segnali del proprio corpo, i segnali del ciclo che si compie. Presa alla sprovvista, non si era preparata come di consueto con posizioni yoga, tisane, cibo appropriato. E alla fine era stata male: incapacità a concentrarsi dunque a risolvere il più banale enigma, lieve afasia, lentezza estrema, oltre a crampi e tremori e mal di testa e nausea. Una specie di creatura che minaccia di squarciare i tessuti dell'organismo per urlare e uscire allo scoperto. Ma no, dice Rossana, stai buono e fermo che adesso passa tutto. A Rossana piacerebbe entrare nel proprio utero e guardare che cosa mai possa succedere di tanto grandioso da richiedere tutte le energie dell'organismo.
Cinzia si rende conto che, sebbene alquanto anonimamente, il suo corpo è un oggetto di dominio pubblico: in molti conoscono la linea del suo seno, la curva delle sue anche, la rientranza del suo mento e la chiave di violino della sua spina dorsale. Eppure nessuno sarebbe mai in grado di riconoscerla. Eppure nessuno sa nulla di lei.
Rossana sul lavoro oggi ha fatto un gran casino: oltre ad essere arrivata in ritardo, ha pasticciato con le ordinazioni e ha biascicato qualcosa ad un cliente importante che pretendeva informazioni. Rossana fa la commessa part-time in una sartoria; una fortuna, per una giovane studentessa come lei, ma il pretenzioso snobismo del negozio richiede una presenza di classe, sveglia ed intelligente. Invece pare che lei abbia mandato un tailleur da donna al cugino dell'assessore che aveva sborsato fior di quattrini pur di avere l'abito pronto per quella sera, in cui doveva incontrarsi con certi industriali. E quando lui aveva chiamato furioso lei aveva provato a dire che non stava bene, e che avrebbe provato a rimediare al disastro.
La cosa più naturale le sembrava che sarebbe stata dirgli: guardi che ho le mestruazioni, oppure dirlo direttamente alla maitresse, ma qualcosa le suggeriva che non avrebbe funzionato. In verità era completamente alienata, e non sapeva come contrattare con la realtà circostante.
Cinzia ha indossato il suo nuovo completo: un affarone, e le sta d'incanto. Seduta in un bar sorseggia un aperitivo con le amiche e tace, come se qualcosa le rendesse insopportabile la fatica di mettere insieme un discorso. "Forse mi stanno arrivando", pensa tra sé.

martedì 13 ottobre 2009

La casa sull'autobus

Mi piacciono gli autobus. L'autobus vuol dire "città", per me che vengo da un paese in cui si va in piazza in bici e al cinema in macchina. Mi piace salire sull'autobus e starci per almeno un quarto d'ora. Prima di andare alla fermata scelgo il libro che leggerò durante il viaggio. Abito molto lontano dal centro, quindi ho molto tempo a disposizione. Posso davvero immergermi nella lettura. L'autobus passa in media ogni 15 minuti, in questa zona periferica della città. Così, se mi rendo conto che dovrò aspettare a lungo, mi siedo sotto la pensilina e inizio a leggere. Poi l'autobus arriva, seleziono il posto a sedere, scartando quelli riservati agli invalidi, agli anziani e alle donne incinte, e prediligendo quelli con lo scalino e quelli orientati nel senso opposto alla marcia, dove solitamente neanche il vecchiettino più instabile osa chiederti di cedergli il posto. Poi mi accoccolo alla meglio nella mia nuova postazione e apro il libro. Qui è la mia nuova intimità, uno spazio temporaneo tutto mio, in cui mi sento perfettamente a mio agio, in quieta e tacita alleanza con l'autista (visto che ci teniamo compagnia per buona parte del viaggio) e con eventuali altri abbonati del servizio dei trasporti pubblici. Ecco, infatti: l'abbonamento. La disinvoltura con cui salgo e scendo dagli autobus, senza l'ansia di timbrare, munirsi del titolo di viaggio, senza controllare che non si sforino i sessanta minuti. Forse è proprio l'abbonamento, questo piccolo bigliettino un po' più lungo degli altri, che mi consente questa simbiosi con il mezzo di trasporto. E poi sicuramente il fatto di non doverlo condurre, di lasciarmi trasportare.. una specie di passività quasi sensuale, e che distende ogni singolo nervo. Infatti ieri sera mentre andavo in città ho estratto il mio libriccino; ma poi ho dato un'occhiata fuori e ho notato che era già buio, alle 19:30. Ho pensato che era arrivato l'autunno. Allora ho richiuso il libro e l'ho rimesso nello zaino. Mi sono assopita nel fiume di luci e vetrine che scorreva fuori dai finestroni dell'autobus. E infatti l'ho visto, l'autunno, che era annidato in mezzo ai passi dei passanti, nello scrosciare del fogliame, nel riflesso del faro di un'auto sul portone di un condominio. Era solo rintanato e aspettava un'entrata eclatante. Oggi l'ultimo temporale.

mercoledì 30 settembre 2009

Lo sbuffo del treno

L'uomo del treno è l'uomo degli asciugamani; apre ogni tasca e ne estrae un asciugamano; piccolo, medio, grande, ma sempre azzurro. Ne toglie uno dallo zaino e (sempre sbuffando) cerca di infilarlo nella valigia, già stracolma (anche di asciugamani). Non ci riesce e allora sbuffa e si mette a piegarlo per bene. Poi estrae qualcosa dalla tasca, e da questo qualcosa estrae ancora qualcosa – soldi forse – e li infila da qualche parte nella valigia. Sbuffa, richiude il presunto portafoglio, se lo rimette in tasca. Chiude la valigia, gli cadono delle chiavi, sbuffa, le raccoglie: erano le chiavi del lucchetto della valigia. Serra la valigia, sbuffa, la sistema sul portabagagli. Prende lo zaino, ne estrae un pezzo di stoffa minuscolo nero, sbuffa, riprende la valigia pesantissima, la rimette sul sedile, la riapre – io esco a prendere un po' d'aria.
Quando è salito a Colonia sbuffando con un caffè in cartone e del pane in plastica, oltre a tutti i bagagli, si è messo a bere e mangiare con la stessa urgenza che si usa quando si torna a casa con la pipì da fare: si gettano a terra le cose che si hanno in mano, ci si siede sulla tazza con la giacca e la sciarpa e non si chiude la porta. Lui ha bevuto scuffando il caffè e ha infilato tra un sorso e l'altro un tozzo di pane, seduto sul ciglio del sedile attiguo a quello su cui avevo appoggiato i piedi scalzi, irrompendo nell'intimità della mia tristezza, costringendomi a ricompormi, nonostante la sua scompostaggine. Quando ha finito di rifocillarsi ha sbuffato e ha intrapreso lo smonta e rimonta prima descritto.
Adesso ha chiuso gli occhi abbracciando lo zaino che tiene sulle ginocchia.
Va in Italia.

venerdì 8 maggio 2009

La Festa del Crocifisso a Castano Primo


A Castano Primo (MI) si svolge in questa settimana la celebrazione del s. Crocifisso. La poderosa scultura lignea del Cristo morto viene fatta trasmigrare da una chiesa parrocchiale all'altra – sono due in tutto – in varie tappe nei rioni della cittadina. Le processioni durano una settimana, divise in tappe. Gruppi di 14 persone tra uomini e donne si avvicendano nel trasporto della pesante reliquia, ognuno per un tratto di una settantina di metri. Intanto la gente accodata prega o chiacchiera, molto silenziosamente. Le strade sono addobbate in pompa magna, con migliaia di bandierine porpora con impresso il logo del crocifisso, le luminarie di natale meno natalizie, i lumini bianchi o rossi lungo le cinte e i cancelli o i marciapiedi, alcuni altari preparati da cittadini volenterosi, i gigli bianchi finti. Poi ci sono le "porte", purtroppo non stravaganti come in passato, che segnano l'entrata nei vari rioni. E naturalmente gente alle finestre, ai balconi, ai lati delle strade.
Conclusa la tappa giornaliera, il crocifisso viene lasciato "dormire" nelle strutture designate, vegliato da volontari fino alle 6 della mattina, quando riprende la liturgia.
Tutto questo si ripete ogni venticinque anni.

Alcuni pensano che forse è l'ultima festa del crocifisso che vedranno. Alcuni a vent'anni è la prima che vedono. Alcuni ne hanno già viste tre o quattro. Alcuni quando la rivedranno saranno ultracinquantenni, e oggi sono studenti universitari con un'idea vaga del futuro (io!). Il parroco della parrocchia Madonna dei Poveri è la prima volta che la vede.
Il crocifisso è un modo infallibile di scandire il tempo in modo molto chiaro e netto. Ma non solo.
Si possono ammirare i cambiamenti di una piccola comunità: ai lati delle strade e affacciati alle finestre ci sono i volti esotici, incuriositi e seri, dei nuovi cittadini castanesi: i pachistani, i bangladesi e i magrebini che riempiono la vita di piazza ormai disertata dai cittadini originari o acquisiti da due o tre generazioni. Loro non c'erano venticinque anni fa. Chissà cosa pensano di questa manifestazione? Forse per loro gli italiani, i castanesi sono tutti matti. Oppure sono contenti di trovarsi in questo silenzioso momento di folklore locale e lo raccontano ai parenti lontani con un pizzico di divertito interesse.
E poi: che memoria a lungo termine è necessaria per mantenere le motivazioni a celebrare qualcosa a cui si è pensato un quarto di secolo prima per l'ultima volta? Ma forse proprio questo è interessante, forse un po' è proprio la Storia che viene celebrata, il trascorrere del tempo, il mantenimento di una consuetudine la cui origine si smarrisce nell'incertezza  e nella leggenda. Si dice che il Cristo che sta su questa croce abbia protetto i castanesi dalle cannonate degli austriaci, e anche che li abbia salvati dalla siccità; forse è stato sottratto alla chiesa di un paese vicino, o forse l'ha portato il fiume (Ticino).
E' comunque un'esperienza straordinaria, che scuote la vita sonnacchiosa della cittadina per una settimana intera, senza contare i preparativi e l'organizzazione di ogni cosa. E poi per ventiquattro anni ognuno torna alle proprie case, e a ricordare l'ultima Festa del Crocifisso.

giovedì 9 aprile 2009

Il giornalismo è al servizio dei cittadini?-festival del giornalismo di Perugia

Il professor Calafati, docente di Economia Urbana, Università delle Marche, ha condotto una ricerca insieme ai suoi studenti sul modo in cui la stampa italiana ha trattato l'argomento Tav in Val di Susa, in particolare confrontando La Stampa, La Repubblica e il Corriere della Sera. La conclusione di questa rassegna è che incredibilmente si è ignorata una componente fondamentale al quadro completo dei fatti: le ragioni che hanno spinto gli attori economici a intraprendere una scelta così incisiva sulla vita della popolazione e sull'ambiente.
Davanti ad una risma di prime pagine di testate britanniche, per la gran parte tabloid, Nicholas Jones della BBC intrattiene il pubblico svelando alcuni vizi dell'informazione: il concentrarsi su elementi superficiali che finiscono per ricoprire un ruolo importante, vengono falsificati a discapito della vera informazione. Briosamente Jones ci spiega quanto valore reale, e non solo simbolico, abbia avuto la parola “sorry” nella trattazione del modo in cui i politici comunicavano la crisi. Cioè di quanto fosse importante che, malgrado le loro mancanze, essi chiedessero poi scusa. Ci sono esempi in cui si costruiva una notizia intorno al fatto che una frase pronunciata da una certa personalità contenesse la fatidica parola, pur senza essere stata detta con l'intenzione che si voleva far credere. Ma l'ha detta – sembra dire la notizia – e questo è tutto ciò che conta. Non più il fatto che la crisi sia stata denunciata o no, in realtà di maggior interesse per il cittadino lettore.
Gli fa eco Sergio Rizzo, del Corriere: “se avessimo ringhiato un po' di più..l'Italia sarebbe un mondo migliore”.
E Calafati invoca l'opzione della Qualità, che altrove funziona: dove i giornali si preoccupano di mantenere alto il livello, cioè in Germania, Francia e Gran Bretagna, le vendite non hanno subito un drastico crollo, perché continuano a servire una “clientela” che sempre comprerà il giornale, visto che il giornale è un servizio. Ma come si va sulla via della Qualità? “Nella società della Conoscenza vige il Giornalismo come Scienza; è necessario creare un contesto di interazione per la ricerca della verità”.
Sassoli protesta: forse nella sua scuola di Capacità Critica insegnerebbe come materia Tv spazzatura e Carta straccia, e se dovesse invece insegnare in una scuola per chef, impartirebbe lezioni di Fast food e Barrette di cioccolato e caramello, visto che secondo lui “anche quando la politica è pubblicità, nell'informazione, rimane interessante, perché serve a sviluppare il senso critico, perché ci si sente costretti a capire”. La sua teoria è smentita dal fatto che una mandria di boccaloni ha votato il governo che abbiamo in carica.
Necessariamente, comunque, è impensabile che si tenga presente il pubblico nel processo d'impacchettamento del prodotto giornalistico, data la situazione della tv pubblica, dove pubblico e privato sono in tal modo intersecati che non si capisce più niente. Certo questa situazione non fa bene alla Qualità del lavoro. Manca un'idea pedagogica del giornalismo.
Manca il valore d'uso, replica Calafati.
Allora c'è da chiedersi se le regole del giornalismo siano invecchiate. Secondo Rizzo è un problema di persone, quelle che dirigono i giornali, i veri responsabili della rettitudine di una testata, perché tengono la schiena dritta a sé e alle persone che lavorano intorno a lui. Ma questo è un problema proprio italiano, che risponde ad una questione più basilare: un'idea di stampa, e di fare audience, diversa da quella che vige in GB. E questa differenza si legge bene nelle versioni on-line dei quotidiani, che sembrano in alcuni casi intendere la rete come luogo in cui si possano dimenticare le regole del buon giornalismo. È certo che la rete rappresenta una rivoluzione per la stampa. Una sfida. D'accordo Sassoli: è una possibilità per venire a contatto con punti di vista altri, nella loro compresenza. Infatti Calafati ammette che il giornalismo va ridefinito, poiché non sta più solo nei luoghi tradizionali.
Per esempio, dice Rizzo, bisogna tornare sul campo, cosa che dovrebbe essere scontata, ma non lo è nei giornali al contrario che leggiamo oggi. Jones: l'industria dei giornali deve essere reinventata.

domenica 22 marzo 2009

Adriano Meis, clandestino

Un aiuto dalla letteratura per comprendere e riflettere sull'attualità. In questi giorni in cui penso ad un amico, che è tornato nel suo Paese dopo essere stato clandestino nel nostro (ma di chi è poi veramente l'Italia?), provo a capire e come in regalo si presenta al mio fianco, mentre cammino speditamente per una commissione qualsiasi, Adriano Meis, quasi a rassicurarmi che non c'è bisogno di fare nuovi sforzi interpretativi, basta che io pensi a quello che ho provato leggendo delle vicissitudini di un uomo che non può avere un cane, non una casa, né dichiarare il proprio amore, né denunciare un misfatto subito e nemmeno farsi giustizia da solo. Questo perché non ha un nome, e non avere un nome non significa solo non avere doveri, infatti anche per il fu Mattia Pascal la gioia di questa consapevolezza dura poco: finisce quando diventa stanziale. In breve scopre di non avere nemmeno diritti, di non essere propriamente un uomo. Per fortuna non si ammala mai gravemente (chissà se all'epoca i medici abbiano avuto l'obbligo di denuncia). Anche Adriano Meis decide di tornare a casa: si priva di quella vita insulsa e riprende possesso di tutto quello che aveva volontariamente abbandonato (seppur guidato più che altro da un'incredibile fortuna, nel senso dantesco. Ma d'altronde molte cose della nostra vita sulle quali giureremmo di avere la completa padronanza, non dipendono se non dal coincidere di circostanze molto fortuite). E finalmente può parlare, si libera con forte sarcasmo e potenza di tutto quello che ha sempre e solo subito, finalmente pieno di sé, nel senso che è tutto riempito della sua identità, laddove c'era - nel periodo Meis – un inutile involucro di nulla, vuoto come un morto. Il suo nome lo rende libero.
L'amico rientrato a casa scrive della libertà di poter guidare la sua auto. E che gli sembra di essere rimasto 100 anni in prigione (erano solo 3, in libera circolazione,ma clandestino) e di essersi svegliato magicamente e di non aver potuto fare a meno di piangere.
Poi un altro personaggio ha cominciato a ballonzolare sdegnoso al mio fianco, tutto nudo: era l'Imperatore de I vestiti nuovi dell'Imperatore. Ancora non lo voleva ammettere di essere ridicolmente nudo, con quel corpicino rinsecchito da una vita immagino pigra e senza slanci vitali. E mi ha fatto pensare a quali estremismi può portare l'essere conformista, a quale vette di pazzia, in barba a tuti gli sforzi ufficiali di essere normali! Là nessuno aveva il coraggio di ammettere quello che gli occhi sottolineavano con evidenza, tutti per non rischiare di contraddire un senso comune (ingannato), rinunciavano a pensare, e, quel che è peggio, ad avere stima del proprio metro di giudizio. Tutti al servizio di un misterioso imperatore..un tale idiota! Ma, se non sbaglio, nella storiella, a gridare che il re era nudo e a ridere di cuore, erano i bambini..e i grandi facevano maschera ai loro occhi con le loro grosse manone popolane. O no? Non ricordo più bene.

venerdì 20 marzo 2009

Piazzetta Marco Biagi

Mi sono trovata per caso ad assistere ad una parata di moto della polizia e volanti dei carabinieri con tutti i lampeggianti in azione, ma in silenzio, senza sirene. Seguivano un branco di ciclisti bardati a puntino anch'essi in silenzio. La scena appariva surreale. Sembrava una squadra speciale che si preparava ad un agguato e spianava la strada per prendere possesso delle postazioni stabilite. Ho seguito lo strano corteo. Si sono fermati tutti in cerchio in piazzetta Marco Biagi, intorno a degli strampalati musicisti in silenzio. Tutti in silenzio. Un uomo con la fronte corrugata consegnava dei fogli. Sono corsa a farmene passare uno. C'era scritto "In memoria di Marco Biagi" in una cornice fatta di bicrome stereotipate. Dentro: Se bastasse una canzone di Ramazzotti, Strada facendo di Baglioni, due spirituals e Let it be. Guardandomi intorno ho avuto l'impressione che a questa commemorazione fossero presenti solo forze dell'ordine: carabinieri, poliziotti, finanzieri e ciclisti dell'esercito, più i vari comandanti in borghese. Ho avvicinato un carabiniere e gli ho chiesto del perché delle biciclette dell'Esercito. Non lo sapeva. se era la sua (di Biagi) la bicicletta che era stata condotta a mano a pochi metri da lì, davanti al portone dove è stato ucciso. Non lo sapeva. Era imbarazzato e ridacchiava. Il cantante chiede un minuto di silenzio (non ce n'era bisogno) e introduce la cerimonia della bicicletta. Essa viene fotografata insieme alla ragazza che la conduce (sua figlia?), al vice sindaco e ad altre personalità da una decina di flash e due telecamere. Gli altri astanti rimangono fermi ad osservare attoniti l'evento mediatico che si sta consumando a pochi decimetri. Gli stessi scatti delle macchine fotografiche fanno da colonna sonora al rientro della bici nel cerchio che si era spezzato per farla passare, poi i suonatori attaccano con Baglioni. Fa freddo. Si è alzato il vento. Al primo spiritual lascio la piazzetta.
Pubblico questo post in ritardo di un giorno e mezzo (rispetto a quando è stato scritto) per impedimenti tecnici. Mi scuso se può apparire meno attuale di quanto lo sarebbe stato se fosse stato rilasciato a caldo, ma ci tenevo comunque ad apporlo qui. 
La lotta dei papi contro l'aggeggio in lattice più comune al mondo, dopo i guanti usa e getta, non sembra aver subito una svolta originale. Da quando l'Hiv è una malattia tragicamente famosa, gli infallibili portatori dello zucchetto bianco hanno deciso che il temibile virus si scaglia sull'umanità come conseguenza naturale dell'andar peccando, di condotte sessuali lontane dalla via indicata dalla Chiesa.
In questo potrebbe leggersi qualcosa di provvidenziale, se non sapessi che i papi sanno come la Scienza spiega questi fatti, per quanto probi e osservanti possano essere i loro consulenti scientifici. Si potrebbe cioè pensare che Dio abbia mandato l'AIDS come punizione, come segno per i suoi figli disobbedienti; e in questo, a dire il vero, Dio dimostrerebbe di essersi evoluto ben poco, se spera di convincerci così. E per di più ricorda molto da vicino certe dichiarazioni provenienti da parte di esponenti dell'Islam radicale in Afghanistan in guerra con l'Occidente (ho appena letto il reportage di Pietro Suber). lo stesso Islam sommariamente indicato fra i peccati di cui l'Africa si macchia, insieme a poligamia e adulterio, e che provocano il propagarsi del virus.
Ma non è così, perché, come diceva Wojtyla, i malati di AIDS sono come Gesù, e vanno trattati come lui, perché vedranno il regno dei cieli (1989).
Lo stesso papa che aveva due anni prima incitato le potenti case farmaceutiche dell'Arizona a fare come il buon samaritano, e che quindi conosceva bene il problema, ma di fronte ai malati non poteva che offrire la consolazione della preghiera e la promessa di un altrove migliore.
La tradizione del pietismo non è stata interrotta da papa Ratzinger, anzi ribadita in questi stessi giorni del suo viaggio in Africa. Eppure anche lui non ignora le cause terrene della pandemia. Ma la soluzione, nonostante i dossier (segui link), è sempre la stessa: meno sesso. - E ma c'è il preservativo!- - Nooo! Quello non fa niente! Che c'entra il preservativo!-
Tutto sommato trovo giuste le affermazioni del Santo Padre sul fatto che tutto dipenda dalle ingiustizie sociali, ma tra queste annovererei anche la scarsa informazione, l'inaccessibilità dell'informazione sull'Hiv in queste valli di lacrime. Quindi definirei per lo meno incauto andare a raccontare a questa gente che devono semplicemente astenersi (come se fosse facile, visto che per la maggior parte delle persone, laici e non, fare l'amore è bello, soprattutto se nessun catechista ha mai cercato di convincerti del contrario) e "porsi accanto a chi soffre come S. Francesco baciando il lebbroso". Eh, no. Il lebbroso si "bacia", ma con il preservativo; e già spiegare come si usa sarebbe un'opportunità di sensibilizzazione contro comportamenti ritenuti scorretti.
E' giusto che la Chiesa si faccia carico della sua responsabilità morale nei confronti dei membri della sua comunità, ma, come disse Carlo Maria Martini (leggi il dossier dell'Espresso), è possibile accettare delle priorità, laddove la soluzione ecclesiastica sia poco effettiva.
Ma in fin dei conti, davvero il preservativo aiuterebbe nella lotta contro l'AIDS in Africa? O ha ragione il Papa, e l'unica soluzione è quella paziente dell'attesa che la retta via si faccia man mano più affollata, nonostante tutti i caduti che questo mostro incontenibile abbandona?
Beh, intanto c'è il fatto che, con il profilattico, materialmente, il virus non passa.
Rieccomi.