venerdì 28 gennaio 2011

La mia prima esperienza con il navigatore

Dal momento che non abito in questi luoghi da anni, nonostante siano i luoghi della mia infanzia, della mia adolescenza, delle mie radici, molto spesso non li vivo più come famigliari, a volte mi risultano del tutto sconosciuti e si rende necessaria da parte mia una nuova esplorazione da capo a piedi, col rischio di perdersi sempre in agguato. La paura di perdermi non mi fa superare i 60 km all'ora, per la gioia di quei motoscafi con le ruote che chiamano suv, con questi fari di ultima generazione puntati nell'abitacolo e riflessi dagli specchietti e quindi dagli occhi, che servono per farti ritrovare la monetina che si era infilata in un angolo buio del cruscotto e che finalmente riemerge. Io con la mia piccola auto di vecchia generazione (ma a benzina verde) quando sulle nostre strade scende il buio che cancella ciò che rimane delle tracce della  "fedele linea bianca", martoriata e disturbata dai segnacci delle altre linee provvisorie lasciate dai mille cantieri a ore, con i fievoli fari di cui è provvista non posso vedere al di là di 50 metri davanti a me. Si tratta di un dramma profondo e di una lacerazione insanabile della mia anima: non riconosco più nulla di questi luoghi, mi perdo a Vanzaghello, dove a quindici anni arrivavo con il ciao passando dai boschi che univano il paese al mio. Adesso quei boschi sono stati tagliati profondamente dalla superstrada Milano-Boffalora e un cratere brulicante di auto si è aperto sotto il paesaggio della mia adolescenza.  Le rotonde poi, questi marchingegni maligni che si riproducono senza sosta, mangiando incroci e marciapiedi. Hanno cominciato a nascere a pochi metri da casa mia, quando ancora vivevo qua, su un incrocio piuttosto innocuo, ma consegnato ai posteri come un incrocio pericoloso. Una rotonda l'ha fagocitato e adesso molte carene di motorini e paraurti di auto frettolose giacciono là mischiate ai pezzi di costolone di pista ciclabile. Poi le rotonde hanno cominciato a conquistare pezzo a pezzo tutto il territorio. Da Castano Primo a Gallarate, a Cuggiono, a Magnago, a Legnano, ovunque è tutto un susseguirsi di rotonde, tutte uguali, che oltre agli incoroci si sono mangiate anche ogni dettaglio sul posto in cui ti trovi. Impaurita dall'estraneità del paesaggio, stasera per andare a Gallarate mi sono fatta prestare un navigatore satellitare dai miei genitori. Un tomtom per andare a Gallarate. Mi sentivo già ridicola quando in fondo alla strada per non fare casino ho spento la radio, che se no mi confondevo. Ho seguito quella voce elettronica. Non volevo fidarmi, eppure non avevo scelta. Era una macchina a dirmi dove andare, mentre io svolgevo la parte meccanica dell'operazione: guidavo. Avevo spento completamente il mio intuito, la mia memoria, il mio buon senso. Era la macchina a dirmi cosa fare. Le rotonde mi afferravano e mi risucchiavano nel loro vortice, occhio di un ciclone di strade che se ne prendi una arrivi chissàdove. Appena possibile ritornare indietro, blatera altero  il navigatore. Al ritorno ho vinto io: non potevo più sopportare di non avere nemmeno un'occasione per riappropriarmi di questo territorio, di sprecare questo passaggio su strade nere e nuovissime e deserte senza darmi una possibilità di capire. Ma cosa sono questi luoghi? Ma cosa sono io? Ho spento il navigatore, ho riscoperto la paura di sbagliare strada ma anche la mia intelligenza geografica che sgranchendosi le meningi si metteva al lavoro. 

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